Pubblichiamo oggi una breve intervista al prof. Silvano Petrosino, docente presso l’Università Cattolica di Milano, autore – per le Edizioni San Paolo – del recentissimo Il magnifico segno. Comunicazione, esperienza, narrazione; un sorprendente saggio filosofico sul senso della parola umana e sulla natura di quel «magnifico segno» che è la letteratura.
A fare da filo conduttore all’intero volume vi è la domanda: Siamo tutti connessi, ma davvero comunichiamo?
SanPaoloStore: Professor Petrosino, davvero la filosofia può insegnare qualcosa sulla comunicazione in un periodo in cui gli strumenti della comunicazione si moltiplicano e possiamo trasmettere informazioni al mondo in ogni secondo della nostra esistenza?
Silvano Petrosino: In fondo la filosofia non ha mai fatto che una cosa sola: riflettere sulle parole e sui concetti smascherando i molti luoghi comuni, i preconcetti e spesso le menzogne che si nascondono tra le pieghe dell’ovvio. Nel nostro caso la filosofia può svolgere un’essenziale opera di smascheramento nei confronti di uno dei termini/concetti oggi più usati e in verità abusati: comunicazione. Quello che cerco di mostrare nel libro è che ciò che si definisce “comunicazione”, soprattutto in riferimento ai nuovi strumenti digitali, in realtà non lo è affatto; come dico nel libro, non è sufficiente inviare e scambiare messaggi per comunicare. In altre parole: “messaggiare” di per sé non è affatto “comunicare”.
SPS: Se dovesse esprimerlo in breve: qual è la differenza tra comunicazione e narrazione?
SP: Forse si può affermare che la comunicazione non è sempre narrazione, mentre la narrazione è sempre comunicazione. Quando spiego le tabelline ad un bambino in classe, se voglio comunicare quel determinato sapere a quel bambino, allora comunico con quel bambino, ma in senso stretto tale comunicazione non è di per sé una narrazione. Ha fatto questo esempio anche per discutere un po’ questa stessa distinzione: in effetti, proprio per spiegare le tabelline ai bambini, spesso si fa uso della narrazione, si racconta una fiaba o si fa un esempio che si estrae da un racconto.
SPS: Nel suo libro lei parla degli scrittori come di uomini che “non smettono di cercare l’impossibile”: perché?
SP: Lo scrittore in senso stretto, vale a dire lo scrittore narrativo, creativo (sebbene poi, altra precisazione, ogni uomo in verità è scrittore), cerca di “descrivere” non la vita o la realtà, ma l’esperienza della vita e della realtà. Ora, l’esperienza è sempre estremamente complessa, è sempre qualcosa di aggrovigliato che sfugge al pieno controllo del soggetto. Lo ripeto più volte nel corso del volume: l’esperienza è sempre propria (cioè di un singolo soggetto: non esiste l’esperienza del genere umano) senza essere per questo una proprietà nelle mani del soggetto. Qualcosa sempre sfugge, resta celato, irrimediabilmente nascosto come un segreto; ma lo scrittore, l’autentico scrittore, non rinuncia a volere parlare di ciò che non controlla e non domina. Ecco perché il segno della letteratura è magnifico.
SPS: Perché ha deciso di dedicare l’ultimo capitolo del suo libro proprio alle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar?
SP: Il testo della Yourcenar è un capolavoro anche perché, mentre racconta le memorie di Adriano, racconta o narra l’atto stesso del narrare. L’ho sottolineato nel libro: è come se in questo testo “si prefigurasse una teoria sulla natura e sul senso della letteratura nel momento stesso in cui si sta procedendo alla stesura di un testo letterario (…) [inoltre] la scrittrice ha pubblicato anche i taccuini di appunti con le riflessioni che hanno accompagnato la stesura del suo libro, facilitando in tal modo la messa in luce della questione al centro del presente saggio”. E poi, per riprendere il tema dell’impossibile, che cosa c’è di più impossibile del pretendere di scrivere le memorie (esperienza), e non la biografia, di un altro? Per fortuna la Yourcenar non è indietreggiata di fronte a questa obiezione regalandoci in questo modo uno dei capolavori della letteratura del Novecento.