L’inferno di Hana e delle donne yazide raccontato da Claudia Ryan

Hana la Yazida. L'inferno è sulla Terra

Hana la Yazida. L’inferno è sulla Terra

Il nuovo romanzo di Claudia Ryan racconta una storia che è tante storie insieme: la storia di Hana, una donna yazida rapita da Daesh e riuscita a sfuggire ai suoi aguzzini solo dopo aver attraversato l’inferno. Ryan ha dedicato il libro Alle donne yazide e al loro dolore. Al popolo curdo e alla sua forza.
Ecco il primo capitolo per in esclusiva per i nostri lettori.

HANA LA YAZIDA
L’inferno è sulla Terra
(Edizioni San Paolo)

«Il mio è uno dei popoli sfortunati del mondo. Io sono una donna yazida.»
Emise un lungo respiro, poi continuò a parlare.
«Mi chiamo Hana, ho 26 anni. Il dott. Farhan ha detto che per star meglio devo raccontare la mia storia, così la elaboro…» La voce divenne quasi un soffio. Hana fissava il tablet da 7 pollici che aveva davanti a sé, appoggiato sul pavimento, e che registrava la sua voce. Lo spense. Seduta a gambe incrociate su un materassino posto lungo la parete, si prese il volto tra le mani e si accovacciò. Lei voleva dimenticare, cancellare in modo definitivo dalla sua mente e dalla sua anima quello che le era successo, ciò che aveva visto. Sentì un nodo allo stomaco, un senso di nausea, che arrivava ogni volta che doveva ricordare. Ma lo psicologo era stato chiaro: per lasciar andare il passato prima lo doveva accettare, così le aveva proposto di registrare la sua storia, con i tempi che voleva lei, quando se la sentiva, e lei aveva accettato. Sapeva che il medico aveva ragione, lei era un’infermiera e capiva che per poter sognare di nuovo un futuro doveva rivivere ancora una volta l’orrore dei suoi ricordi.
La sua casa era lì, intatta, intorno a lei, con le pareti bianche e gli oggetti che le erano cari. Un appartamento di tre locali nel quartiere KRO a Duhok. Nulla era cambiato dall’agosto precedente, nessuno era entrato nei cinque mesi in cui era stata assente, ma tutto le sembrava estraneo, ormai. Aveva perso la sua anima e la doveva ritrovare, allora poi, forse, si sarebbe di nuovo identificata con le sue cose, i suoi libri, i suoi ricordi. In una nicchia nel muro c’era la foto della sua famiglia, tutti sorridenti, ritratti quando nessuno poteva intravvedere la tragedia che li avrebbe investiti.
Fuori di casa i 42 gradi di un fine giugno e i bambini che giocavano per strada.
«Sono nata a Sinjar, una città nel Nord-Ovest dell’Iraq, ai piedi del monte Sinjar. Lì vivevano yazidi, musulmani e cristiani. Adesso ci sono i Daesh. Sono arrivati il 3 agosto 2014, questo non potrò mai dimenticarlo, perché quel giorno è cambiata la vita di tutti noi.» Un’altra pausa. Hana guardava un punto fisso davanti a lei. Capelli neri, corti fino appena sotto le orecchie, occhi grigi e profondi, un paio di jeans e un’ampia camicia azzurra. Si sentiva pulita e in ordine, era tornata ad essere una persona e non più una schiava. Ora doveva ripulire il lerciume che sentiva dentro di lei.
«Mio padre era un uomo buono e onesto, aveva un paio di baffi bianchi, profonde rughe gli solcavano la fronte e i suoi occhi erano sereni. Aveva un negozio e con quello ci ha permesso di vivere bene. Ha fatto studiare me e mio fratello, mia sorella più piccola, Wafa, non voleva continuare gli studi, lei aveva 15 anni e ambiva diventare una moglie felice e fedele…» Qualche lacrima incominciò a bagnarle il volto e Hana le asciugò con un gesto stizzoso.
«Per fortuna mio padre è morto prima di tutto questo… Mia madre era una donna paziente e saggia. Vestiva in modo tradizionale, con un foulard che a volte legava dietro la testa e una lunga gonna morbida che ci accoglieva quando eravamo bambini. Aveva gli occhi chiari, grigi, come me. Per un problema di salute aveva potuto avere solo tre fi gli, una rarità nella nostra cultura. Era ancora giovane, aveva 48 anni…» Chiuse gli occhi e le lacrime incominciarono a scendere copiose. «Aveva continuato a lavorare al negozio anche dopo la morte di mio padre. Era una donna forte e riusciva sempre a vedere il lato positivo delle cose.»
Hana spense per un attimo il registratore, si alzò e andò a guardarsi allo specchio appeso alla parete, vicino all’ingresso. Si sentiva vecchia, negli ultimi dieci mesi della sua vita aveva perso tutta la vitalità e la voglia di sognare che l’avevano sempre contraddistinta. Si accarezzò il volto con una mano, quasi a voler lisciare quella pelle che incominciava a presentare le prime sottilissime e lievi rughe, segni di sofferenza. Poi tornò a registrare.
«Mio fratello Jovan aveva 22 anni. Era bello, giovane e forte.» Un sorriso animò il suo volto a quel ricordo. «Amava sempre scherzare ed era un ragazzo dolce, affettuoso con nostra madre e noi sorelle… gli volevo molto bene. Si era diplomato in contabilità e aiutava mia mamma nella gestione del negozio. La nostra era una vita tranquilla. Io avevo trovato lavoro come infermiera qui all’ospedale di Duhok, dove abitualmente vivevo. Tra Duhok e Sinjar ci sono due ore e mezza di strada, così tornavo a casa qualche giorno quando potevo.» Un’altra pausa. Hana osservava la leggera tenda bianca mossa dalla brezza, in realtà la sua mente era persa in ricordi che sembravano lontani, ma risalivano solo a dieci mesi prima. Una mosca si intromise tra lei e i suoi pensieri. La scacciò.
«Il destino gioca d’azzardo… se fossi rimasta a Duhok non avrei vissuto l’inferno, ma la mia religione dice che questa vita è una prova, tu puoi scegliere tra il bene o il male… di sicuro è stata una prova dura. Spero sarò ricompensata come l’angelo Melek Taus venne ricompensato da Dio stesso, perché c’è stato un momento quando avrei potuto uccidere, vendicarmi… ma non l’ho fatto.»
Un altro sospiro, un altro silenzio.
«Era già buio quando sentimmo i primi spari. Era tardi, mia madre e mia sorella erano già a letto, io leggevo, mio fratello usava il suo smartphone per giocare. Ci guardammo allarmati, sapevamo che i Daesh non erano lontani, ma nessuno credeva che potessero arrivare fi no a Sinjar… I colpi di mortaio erano sempre più vicini, e poi spari di fucile, mitragliatrici. Wafa e mia madre ci raggiunsero. “Scappiamo sulla montagna!” disse Jovan. “È troppo buio ora, è pericoloso…” rispose mia madre con il volto pietrificato per la paura. “Io credo sia pericoloso anche stare qui!” ribadì Jovan scalpitante. Alla fi ne stabilimmo che saremmo scappati alle prime luci dell’alba. Nessuno di noi andò a dormire, gli spari sembravano sempre più vicini. Io e mia mamma preparammo quattro borse con dentro dei vestiti, acqua, una coperta, soldi e i nostri pochi gioielli. Passarono un paio d’ore e Jovan tornò all’attacco: “Madre, dobbiamo andare! La gente fugge…” In effetti guardammo dalla finestra e molte persone correvano per strada. Si sentì bussare alla porta, era Erzan, l’amico di Jovan. “Venite, dovete venire! I Daesh sono entrati in città, la gente corre sulla montagna. È un grande esodo, già tanti sono scappati, muovetevi!” e se ne andò via di corsa.» Hana aveva gli occhi chiusi.
«Fu un momento estremo, è difficile da spiegare. In un istante devi lasciare tutto. Non è un viaggio, non vai temporaneamente a visitare qualcuno, ma scappi. Capisci che pochi minuti possono fare la differenza. Mi guardai in giro, la nostra casa, il luogo dove ero nata, in pochi sguardi la feci mia, con bramosia, la fissai nel mio cuore perché sapevo che non ci sarei più tornata. Poi prendemmo le borse e ci buttammo fuori, nella ressa, con la paura che ci attanagliava, il panico lo potevamo sentire nell’aria. Correvamo, Jovan teneva per mano mia mamma, io tenevo Wafa. Correvamo verso la montagna, nelle vie strette dell’abitato. Ormai non era più buio profondo, le prime luci all’orizzonte facevano vedere meglio dove si stava andando. La città finiva là, in fondo alla via. Poi c’era la piana e poco dopo iniziavano i primi declivi che portavano alla montagna. Lì sarebbe iniziata la parte più faticosa, perché il monte è impervio.» Un sospiro. Il volto di Hana era pallido e tirato.
«Ma alla fine della via c’erano i soldati dell’ISIS che ci bloccarono tutti, con i kalashnikov in pugno. Spararono in aria, intimarono di fermarsi. Ci furono urla di terrore, urla di ordini, urla… Ci facemmo stretti, tutti e quattro abbracciati, come se nell’unione potevamo essere più forti.»
«La mia gente è abituata ai genocidi… c’è un ricordo orale che si tramanda: 72 volte tentarono di sterminarci. Ma per chi lo vive sulla sua pelle è diverso, non è una consolazione sapere che è già stato fatto prima, in quel momento sei solo terrorizzato e preghi di salvarti. O di morire, dipende…» La voce divenne quasi un sussurro.
Il cellulare suonò interrompendo quell’atmosfera rarefatta, carica di fantasmi, facendo ritornare all’istante Hana al presente. Spense il tablet e rispose al telefono.

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