Christian De Chergé, il martire di Tibhirine

9788821598470Pubblichiamo in esclusiva sul nostro blog, l’introduzione di Andrea Riccardi a L’Altro, l’Atteso (Edizioni San Paolo), il volume che raccoglie le omelie di Christian De Chergé, monaco trappista preso in ostaggio e assassinato nel 1996 a Tibhirine.
A lui e ai suoi compagni, il regista Xavier Beauvois ha dedicato il film pluripremiato Uomini di Dio.

NIENT’ALTRO CHE L’AMORE
di Andrea Riccardi

Queste omelie di padre Christian de Chergé sono preziose. Abbracciano un lungo periodo che va dall’aprile 1980 a pochi mesi dalla sua morte, nel maggio 1996. Anzi, si dovrebbe dire del suo martirio. Infatti le omelie sono i testi spirituali di un uomo che, in qualche modo, sceglie di restare in una situazione sempre più minacciosa. De Chergé era in Algeria dal 1971, nel monastero di Notre Dame de l’Atlas a Tibhirine, dove era arrivato quando non erano ancora trascorsi dieci anni dall’indipendenza del Paese dopo una dolorosissima guerra di liberazione e l’esodo di gran parte della comunità cattolica algerina. La grande domanda che, dopo il 1962, anno dell’indipedenza, i religiosi e i cristiani algerini si erano posti era se restare o no. Avrebbero condiviso la nuova storia del Paese, come una piccola minoranza.
La comunità di Notre Dame de l’Atlas aveva scelto di partecipare, in una prospettiva monastica, alla ricostruzione della Chiesa cattolica d’Algeria in un mondo divenuto tutto islamico. Lo aveva fatto in una vicinanza particolare all’arcivescovo di Algeri, il card. Léon Etienne Duval, il quale era profondamente affezionato ai monaci (infatti la notizia del loro rapimento fu un colpo gravissimo per il Cardinale, arrivato alla fine dei suoi giorni). Il card. Duval, arcivescovo di Algeri nei tempi dell’Algeria francese, con un profilo che gli valse ingiustamente l’ostilità di tanti suoi diocesani che lo chiamavano Mohammed Duval, aveva desolidarizzato la Chiesa cattolica dal regime francese e dalla volontà degli stessi cattolici di mantenere il governo della Francia nel Paese nordafricano. Aveva da sempre creduto nell’autodeterminazione dei popoli e rispettò la volontà della maggioranza degli Algerini per l’indipendenza. Duval aveva sognato, insieme ad altri cattolici, che l’Algeria potesse essere una terra di coabitazione tra la maggioranza musulmana, gli ebrei e i cristiani. Negli ultimi anni della sua vita – come ha testimoniato Marco Impagliazzo – sentiva l’amarezza del fallimento, ma continuava a credere che si dovesse provare a vivere insieme1.
Il card. Duval rilanciò, nell’Algeria indipendente, una Chiesa povera e umile, tanto diminuita come strutture e funzioni, ma che sentiva d’avere una missione di fede, di amore e di preghiera nella società musulmana. Il monastero di Tibhirine è parte integrante e importante di questo nuovo profilo della Chiesa cattolica in terra islamica.uomini di dio
Il Cardinale appoggia i monaci e tiene molto alla loro presenza, come – del resto – teneva tanto alle clarisse di Bologhine, vicino a Notre Dame d’Afrique, ad Algeri, dove risiede lui stesso.
Christian de Chergé è partecipe della scelta dei cristiani algerini, pochi e quasi tutti di origine straniera: restare nel Paese, vivere con i musulmani e non andare via, nonostante l’Algeria degli anni Settanta, Paese islamico e socialista, non sia più quella che la Chiesa ha conosciuto nei lunghi decenni dell’Algeria francese. Perché la Chiesa, in Algeria, è ritornata nell’Ottocento con le truppe francesi ed è stata, in larga parte, all’interno del quadro del mondo europeo. La retorica delle memorie cristiane dell’antico Nord Africa è spesso servita per giustificare la dominazione francese. Ma la Chiesa, dopo il 1962, è povera di ogni protezione. Resta il grande prestigio del card. Duval presso gli Algerini, che protegge la Chiesa dall’accusa di essere stata parte integrante del sistema coloniale francese.
I monaci di Tibhirine sentono di avere una loro vocazione particolare all’interno della Chiesa cattolica algerina: quella della preghiera nella terra dell’islam e del dialogo con i musulmani. Sono gli unici monaci in tutto il Paese e portano la responsabilità di una collocazione così particolare, consapevoli che il mondo musulmano tradizionalmente ha un rapporto di rispetto verso i monaci. A Tibhirine s’investe molto nei rapporti umani e nell’ospitalità. Non è qui il caso di ricordare i legami spirituali e amicali che il monastero intesse con i musulmani di Medea e dei dintorni all’insegna del dialogo. Un giovane algerino di Medea, Mohammed Esslimani, ricordava il fascino spirituale che emanava dalla figura semplice e profonda di frère Christian, anche nell’ambiente musulmano2.
Per i monaci, di stagione in stagione, si rinnova la scelta di restare. Sono tutti non algerini, quindi stranieri (non hanno la cittadinanza algerina come il card. Duval), ma sentono sempre più che l’Algeria è la loro patria.
Nell’omelia dell’8 agosto 1983, De Chergé cita il monaco di Taizé, Max Thurian, a proposito della missione del monastero: «E Max Thurian dice: silenzio, preghiera, condivisione. Condivisione: forse è questo il senso della missione in Algeria? Riconciliazione e misericordia». La «condivisione» è un grande tema della spiritualità di Charles de Foucauld, che ha trovato origine proprio nel deserto algerino e qui è rinata con petit sœur Magdeleine e padre Voillaume. Ma significativamente alla condivisione, già nel 1983, De Chergé aggiunge la misericordia e la riconciliazione in una società, come quella algerina, traumatizzata da una lunga guerra civile, però anche segnata da una forte crescita demografica. L’Algeria ha ferite storiche, ma pure una grande fame di futuro, quella dei suoi tanti giovani.
Christian, proprio un giorno dopo la citata omelia, seguendo il filo che probabilmente animava le riflessioni della comunità, continua a meditare sul senso della presenza cristiana e monastica in Algeria. Qui il suo discorso si fa molto chiaro: «Creare ponti e distruggere barriere; preparare qualcosa di nuovo e crederlo possibile… acconsentire al fatto che la nostra sola presenza abbia senso e valore di riconciliazione; percepire la via della riconciliazione verso l’islam». Niente di forzato o imperialistico, ma un umile servizio monastico che vuole «preparare qualcosa di nuovo», com’egli dice, all’insegna della riconciliazione con tutti, ma segnatamente con il mondo musulmano.
Come si vede, si tratta di testi profondi e sintetici, che ci mettono a contatto con la storia spirituale del priore del monastero di Nostre Dame de l’Atlas e della sua comunità. Sono caratteristici della riflessione spirituale del priore di Tibhirine, che è fatta di semplicità dietro cui si intravede una profonda ricerca personale, teologica e culturale. Attraverso questi testi si penetra nel mondo dei monaci e si partecipa delle loro preoccupazioni e convinzioni. Ha ben fatto l’Editore a metterli a disposizione del pubblico italiano, proprio per il loro valore di testimonianza e per la prospettiva particolare che offrono.
In controluce, si leggono tanti eventi della cronaca del mondo contemporaneo, ben presenti alla comunità di Notre Dame de l’Atlas. Si vede come un evento che dà molta forza ai monaci è la preghiera per la pace tra le religioni, voluta da Giovanni Paolo II ad Assisi nell’ottobre 1986, in un clima ancora da guerra fredda. L’evento ha una forte eco a Tibhirine anche proprio per la vocazione della comunità al dialogo. Frère Christian continua a parlare spesso dello spirito di Assisi. Proprio alla vigilia del giorno di preghiera interreligiosa, il priore dice nell’omelia: «…O Dio, abbia pietà di me peccatore è una preghiera che tutti, ebrei, cristiani e musulmani, possono fare insieme ad Assisi, o domani qui. È la preghiera preludio di ogni ringraziamento e di ogni pace. Se ci ritroviamo in una preghiera identica, allora possiamo capire meglio un Dio che non fa differenze tra gli uomini».
de chergÈ interessante notare alcune annotazioni dopo l’omelia che mostrano come, nella sua ricerca, Christian si sia sforzato di trovare una convergenza su questa preghiera tra la tradizione ebraica e quella musulmana. Infatti egli crede molto al dialogo tra gente di preghiera, e pensa che la preghiera sia la dimensione in cui possa svilupparsi l’incontro tra i fedeli delle diverse religioni. Questa è una linea che i monaci vivono anche con la gente semplice e religiosa di Medea, una città di circa 120.000 abitanti a un’ottantina di chilometri da Algeri.
Christian è molto toccato dall’evento di Assisi 1986. Segue lo sviluppo dello spirito di Assisi e, nel 1992, partecipa alla preghiera interreligiosa organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio a Bruxelles in questa linea. Lo ricordo in quei giorni, in Belgio, attento e gioioso, molto partecipe degli incontri con le personalità delle varie religioni.
Nelle omelie qui pubblicate si sente l’eco della sua vita comunitaria, ma anche delle vicende algerine e del mondo più grande (che i monaci hanno presente e per cui pregano con uno sguardo che va lontano soprattutto negli angoli più dolorosi). Specie nelle preghiere, che seguono i testi omiletici dal 1986, brevi e sintetiche ma importanti, risuonano i dolori del mondo, le guerre, particolarmente le difficoltà dell’universo musulmano. Si offre in queste pagine, senza volerlo, un modello semplice ed efficace di intercessione comunitaria per il mondo.
Per esempio, nel 1989, la comunità prega «per i poveri cui manca lo stretto necessario in beni materiali, rispetto di se stessi, rispetto da parte degli altri, per quelli accanto ai quali passiamo senza vederli». E la comunità non pregava solo per i poveri, ma era a contatto con i bisognosi vicini al monastero o di Medea, che venivano aiutati in vario modo e assistiti dal punto di vista della salute dal monaco-medico Luc (il quale avrebbe voluto aiutare tutti in ogni modo, pur mancandogli i mezzi e il tempo). Con umile orgoglio, in una serrata conversazione notturna, frère Christian risponde all’emiro Sayyeh Attia, che era entrato con i suoi uomini armati nel recinto del monastero: «Noi non siamo ricchi. Lavoriamo per guadagnarci il pane. Noi aiutiamo i poveri»3.
Nel 1991, dopo un’omelia dedicata alla pace, nella Domenica delle Palme, la comunità monastica prega «per i popoli del Terzo Mondo quando le miserie e le carestie li spingono alla guerra civile, all’autodistruzione, per l’Iraq, la Somalia, il Mali…». Attraverso questi testi, si entra nel mondo della preghiera di Tibhirine. Si partecipa all’intercessione e alle preoccupazioni dei monaci e, in un qualche senso, si tocca il cuore della loro vita spirituale e quotidiana.
Gente di preghiera in terra islamica, i monaci pregano perché le loro invocazioni «sostengano quelli che soffrono, malati, afflitti, poveri, vittime dell’alcol e dell’AIDS, della violenza e della morte». Così si legge in un testo del 1991, per la festa dell’Immacolata. Si scopre allora una comunità monastica che, nascosta in terra d’islam, veglia nella preghiera sul mondo intero. Si nutre della Parola di Dio, quella che Christian commenta nelle sue omelie, ma è anche informata sulle vicende del mondo e ovviamente dell’Algeria. Leggere le intenzioni di preghiera dei monaci, che seguono i testi omiletici, pur nella loro semplicità e forma scarna, è una scuola di preghiera.
Christian de Chergé e i monaci suoi confratelli sono “vigilanti”: nella preghiera, nell’attenzione al mondo, nella partecipazione alla vita del loro ambiente e della società algerina. Questa è la preghiera cristiana; questa è quella monastica. In una periferia remota al mondo cattolico, c’è un gruppo di cristiani che scruta i grandi orizzonti universali e con umiltà si fa carico dei dolori che provengono da tante parti del mondo. Si vede come i monaci siano periferici ai grandi circuiti del mondo e di quello cattolico, ma non siano disattenti a quello che succede. In particolare i monaci vegliano sul mondo musulmano e sulla delicata frontiera tra questo e l’Occidente (e con il cristianesimo). Vengono dall’Occidente come storia personale, ma ormai si sentono parte del popolo algerino e ne vogliono condividere il destino: questa caratteristica non li porta a essere mediatori culturali o politici, ma solamente gente di preghiera e di amicizia. A Tibhirine, tutti i visitatori – cristiani o musulmani – percepiscono un clima di amicizia e di apertura. I monaci sentono che la frontiera tra islam e Occidente diverrà sempre più critica, mentre avvertono il malessere profondo nella comunità islamica, destinato a esplodere nei decenni a seguire. Vogliono aiutare, essere vicini e amici.
La loro vigilanza, illuminata dalla Parola di Dio, che frère Christian propone in queste omelie, è nutrita dalla lettura della Bibbia. Si vede la semplice e fedele intercessione dei monaci, che credono che la preghiera protegga il mondo. Deboli, senza difesa, in un angolo dell’Algeria che, con il tempo, diviene sempre più difficile e minaccioso, i monaci confidano nella forza della preghiera e ad essa affidano tante situazioni complicate del mondo. Anche i rapporti tra i cristiani e i musulmani.
Pur parte della Chiesa algerina, la comunità è sola a Medea. Qui non ci sono altri cristiani, in una città tutta musulmana. La comunità è povera di mezzi e di risorse. Non vuole essere difesa militarmente, anche quando la situazione si fa più tesa (infatti rifiuta le misure di sicurezza proposte insistentemente dai funzionari governativi). I monaci di Notre Dame de l’Atlas hanno scelto per la semplicità delle forme di vita e per la fragilità. Lo stesso De Chergé non ha voluto mai essere eletto abate, né portare le insegne abbaziali come la croce, che gli sembravano ridondanti. Non voleva proprio essere un superiore in questo senso, mai sopra la comunità. Chi l’ha conosciuto, chi come me ha avuto questo dono, lo ricorda bene per la sua profondità spirituale, la carica di amicizia, l’acutezza dell’intelligenza, ma anche per la semplicità: un fratello fra i fratelli di una comunità di vigilanti. Ma anche un cristiano alla finestra del mondo intero. Un uomo che viveva in un angolo remoto e, allo stesso tempo, curioso di conoscere e di sapere in una dimensione universale.
Eppure, nelle omelie, nonostante la povertà e la semplicità della comunità, appare un’inspiegabile forza. È quella che il priore mostra, nel Natale 1993, quando tre uomini armati della guerriglia antigovernativa fanno irruzione nel monastero, chiedendo che il medico, fratel Luc, vada con loro. Uno dei monaci, Jean-Pierre, così ricorda quella notte: «Arrivando, Christian esclama: “Questa è una casa di pace; mai nessuno è entrato qui con le armi. Se volete parlare con noi, entrate, ma lasciate le armi fuori. E se non potete lasciarle, discutiamo fuori”». Il priore difende il carattere del monastero trappista come un luogo di pace, dove le armi non possono entrare. Ricorda che è Natale, la festa della nascita di Gesù, e i monaci debbono rammentarlo. Si muove con autorevolezza, anche se è in una situazione di grande fragilità, di notte, di fronte a un gruppo violento di cui non conosce le intenzioni. Gli armati domandano pure al priore denaro e una quantità di miele prodotto dalla cooperativa del monastero. In un certo senso, vogliono far rientrare il monastero nel loro sistema e servirsi di qualche sua risorsa. Che possono fare i monaci di fronte alla prepotenza delle armi?
L’emiro Sayyeh Attia dice in maniera perentoria: «Non avete scelta». Ed è vero: i monaci, in qualche modo, sono suoi prigionieri, o alla mercé di chiunque voglia usare la forza nei loro confronti. Christian non intende però collaborare con i rivoltosi o con qualunque tipo di lotta armata. Questo suo atteggiamento non si spiega con una posizione lealista o filogovernativa, anzi il priore aveva personali perplessità sulla classe politica algerina e sulle scelte del governo. Non era contrario a una forma di negoziati che provassero a riportare la pace tra chi si combatteva dilaniando il Paese4.
Aveva anche scritto, in una lettera a Marco Impagliazzo, un amico che lo aveva visitato varie volte a Tibhirine: «Personalmente io dico con forza che ogni tentativo di dialogo aperto e di riconciliazione mi pare benvenuto, degno di interesse e di appoggio». E concludeva saggiamente: «Credo che quelli che utilizzano la violenza (terrorismo o repressione) dovranno incontrarsi, presto o tardi, perché ciascuno sa che non c’è vittoria possibile e degna per l’uomo nel tout-sécuritaire o nel tout subversif»5. Aveva la convinzione che i monaci non dovessero prendere alcuna parte nel conflitto civile che dilaniava l’Algeria né a livello nazionale né locale. Luc, il monaco-medico, poteva curare i feriti che si presentavano al monastero. Non altro. Per il resto, i monaci pregavano per la pace, erano vicini a chi soffriva, vivevano il loro carisma di amicizia senza frontiere.
«Non avete scelta» è la dura espressione dell’emiro. Forse aveva ragione: quel monastero era una trappola per chi lo abitava. Quali erano le scelte possibili per uomini disarmati di fronte alle armi? I monaci non erano ostaggi della violenza che insanguinava il paese? Questa è la risposta di Christian all’affermazione dell’emiro, nell’omelia di commento al capitolo terzo del Vangelo di Giovanni: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Per il priore, i monaci hanno un’altra scelta possibile oltre a quella propostagli dall’emiro, che li vuole piegare alle leggi della guerra civile. Non fuggire dal monastero, non schierarsi, ma restare pacificamente in mezzo agli algerini. È il cuore della loro fedeltà che, negli ultimi anni, diventa sempre più un rischio di vita. Anzi, è una fedeltà che si confronta con il tema e la realtà del martirio, come emerge dal testamento di frère Christian, che resta un documento eloquente.
Questo non significa che i monaci rischino la loro vita, quasi, in un azzardo eroico. Anzi sembra che, anche dopo la cattura da parte dei ribelli, quando davvero la loro vita era minacciata, il priore abbia discusso a lungo per evitare la morte sua e dei fratelli. Fino alla fine ha difeso la loro vita. Il suo testamento spirituale evidenzia bene la coscienza di un uomo che vuole vivere e non morire: «Non potrei auspicare una tale morte», scrive. E lo afferma per amore della vita, ma anche perché la vergogna della loro uccisione non ricada sul popolo algerino. Il priore però mette in luce anche le condizioni in cui si svolge la sua esistenza: «La mia vita era donata a Dio e a questo Paese».
Il testamento è scritto tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, dopo la visita notturna degli armati, che concretizzò il pericolo anche se non ci furono minacce dirette alla loro vita, ma era chiaro che sarebbero ritornati. Nell’omelia del 13 marzo 1994, pochi mesi dopo l’incursione, in un tempo gravido di preoccupazioni, non evita una problematica drammatica, come quella del rischio della vita. Il priore dice ai suoi fratelli, ben consapevoli della situazione: «Nella libertà di questo dono, l’uomo – con Gesù e con i martiri – comprende che “l’importante” come diceva Etty Hillesum “non è rimanere in vita a ogni costo, ma come si rimane in vita”. La libertà è dalla parte dell’amore, sempre e definitivamente. La croce ce lo ripete, come una nuova creazione: la mia vita nessuno me la toglie, io la do da me stesso».
La scelta sofferta (e discussa tra i monaci) è restare. Dopo l’indipendenza, un gruppo di cristiani algerini aveva deciso di rimanere nel Paese con i loro vescovi. Ora, mentre scoppia una guerra civile, i monaci decidono ancora una volta di restare in sintonia con la piccola Chiesa algerina, i cui permanenti sono religiosi, preti e religiose. I monaci non subiscono pressioni da parte dell’arcivescovo, mons. Teissier, successore del card. Duval, il quale evidentemente tiene a che la comunità monastica resti a Tibhirine. È documentato il processo di discernimento che porta alla decisione di restare. Le omelie, qui pubblicate, gettano nuova luce sull’itinerario spirituale dei monaci in questa condizione. Andarsene per evitare di stare in un luogo così rischioso non sarebbe stata un’onta. Del resto – come si è detto – non c’era nessun cristiano da assistere nelle vicinanze, ma solo musulmani con cui continuare un rapporto di amicizia e dialogo.
Decidendo di restare, i monaci si confrontano con la minaccia di morte. Alcune righe scritte da frère Christian illuminano questo confronto: «Presenza della morte. Per tradizione, è assidua compagna del monaco. Questa compagnia ha assunto un’intensità più concreta con le minacce dirette, gli omicidi avvenuti vicinissimo a noi, alcune visite… Dopo il Natale 1993, noi tutti abbiamo scelto nuovamente di vivere qui insieme. Questa scelta (rinnovata) era stata preparata dalle precedenti rinunce di ciascuno (alla famiglia, alla comunità di origine, al paese…). E la morte brutale – di uno di noi o di tutti insieme – sarebbe solo una conseguenza di questa scelta di vita alla sequela di Cristo…»6. Il martirio non è mettere a repentaglio la propria vita con comportamenti a rischio, ma restare fedelmente laddove si è chiamati. E i monaci si sentono chiamati a Tibhirine.
Non si può però salvare la propria vita a tutti i costi: questa è la coscienza di tanti martiri. È un aspetto della stessa passione di Gesù, troppo poco messo in rilievo: il Signore non vive la priorità di salvare la propria vita, non fugge lasciando a Gerusalemme i suoi discepoli e le folle che lo ascoltavano, pur vivendo l’angosciosa attesa – come nell’orto degli ulivi – di una violenza omicida che si sta profilando all’orizzonte. Resta a Gerusalemme e non abbandona i suoi. Rifiuta la tentazione che vanno a gridargli ripetutamente fin sotto la croce: «Salva te stesso». Ma si affida nelle mani del Padre.
I monaci scelgono di restare a Tibhirine, anche dopo le prime uccisioni delle religiose in Algeria. Il 23 ottobre 1994 vengono uccise due suore missionarie agostiniane, che i monaci conoscevano molto bene. Andavano a Messa nella piccola cappella di Belcourt ad Algeri. Lì aveva servito padre Scotto, già vescovo di Costantina (che viene ricordato in un’omelia di Christian: «Un prezioso punto di riferimento»). Accanto alla cappella, nell’ex chiesa cattolica, aveva sede una moschea frequentata dagli ex combattenti in Afghanistan. Ricordo ancora qualche anziana signora francese andare a Messa nella cappella, passando accanto alla moschea. Era uno dei tanti paradossi della Chiesa algerina, che chiedeva solo di restare amica e indifesa in mezzo ai musulmani.
Nella piccola comunità cattolica del Paese i legami sono forti: i primi omicidi sono un momento di prova. Christian conferma la volontà di restare in mezzo ai musulmani: «Le beatitudini sono innanzi tutto il Vangelo del vivere insieme», dice il 1° novembre 1994, nella festa di Tutti i Santi. È un’espressione bellissima che manifesta la comprensione evangelica del sogno del card. Duval, quello di un’Algeria come terra di coabitazione tra comunità religiose diverse. Gli uomini e le donne delle beatitudini sono quelli che sanno vivere con gli altri, nonostante la loro differenza, l’incomprensione e talvolta l’ostilità.
Dopo l’uccisione di suor Odette, piccola sorella del Sacro Cuore di Gesù, nel 1995, frère Christian cita le parole della religiosa assassinata che egli condivide intimamente: «Restare vuol dire affermare il nostro diritto umano fondamentale: il diritto alla differenza, con il riconoscimento di tale diritto da parte degli Algerini, anche tra loro, nelle loro differenze». Così diceva la religiosa. E il priore commenta: «Quelli che hanno assassinato Odette e tanti altri volevano eliminare la loro “differenza”». È un’espressione profonda e luminosa, che coglie la portata totalitaria dell’islamismo radicale e la cecità brutale della violenza e del terrorismo: l’eliminazione della differenza e dei diversi.
I cristiani, anche nella povera forma dei monaci di Tibhirine, rappresentano la differenza nel mondo musulmano e, in qualche modo, consentono che siano presenti e si esplichino tante altre differenze. Questo è vero – ce ne accorgiamo ai nostri giorni – soprattutto in Medio Oriente, dove i cristiani stanno emigrando sotto la pressione della guerra, o in Pakistan, dove la povera comunità cristiana è umiliata e colpita. Si vogliono eliminare i differenti. Ma una società di questo tipo sarà totalitaria. Dopo l’eliminazione del cristiano, verrà l’ora del musulmano “eretico”, poi quella di chi ha un’altra interpretazione dell’islam, delle donne che rivendicano la loro libertà, dei laici e di chi non si piega al conformismo e alla legge della violenza. Eliminare i cristiani dalle società musulmane è l’inizio di un processo che dolorosamente ricade su molti altri.
I monaci di Tibhirine e il loro priore rappresentano la “differenza” cristiana e monastica in terra musulmana. È un’alterità che viene eliminata brutalmente. La storia della fine dei sette monaci di Notre Dame de l’Atlas ha ancora contorni oscuri: quelli di una vicenda che si svolge nell’intreccio tra forze brutali rivoltose e apparati statali poco chiari. È una storia che s’inserisce nella sofferenza del popolo algerino di quegli anni: vivere e morire da algerini era il desiderio dei monaci. Ma soprattutto da uomini di fede, di preghiera e di dialogo. La loro morte, resa eloquente da vari scritti (tra cui quelli di questo libro), non invita certo alla vendetta o allo scontro tra islam e Occidente. Le loro sono vite spese per il dialogo e nel vivere insieme, e questo, in ultima analisi, non è che l’amore. Quell’amore che, per il card. Duval, era la missione della Chiesa cattolica in Algeria.

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