Un’intervista esclusiva a Claudia Ryan, autrice di Hana la Yazida. L’inferno è sulla Terra, di cui vi abbiamo offerto in lettura il primo capitolo la scorsa settimana.
Il suo romanzo si apre con Hana, ormai libera, intenta a rievocare il dramma che ha vissuto. Che donna era Hana prima di essere rapita e che donna è diventata dopo, quando finalmente è riuscita a scappare ai suoi aguzzini?
Hana è una mia invenzione, non è una donna reale, perciò non c’è una vera vita precedente alla sua prigionia, ma, basandoci su ciò che conosco del Kurdistan e delle donne yazide, possiamo ipotizzare come fosse Hana prima di essere rapita.
La protagonista del romanzo è un’infermiera e lavorava in uno degli ospedali della città di Duhok. Parliamo perciò di una donna attenta alle persone, al sociale, che amava il suo lavoro. Quando torna ad essere libera, infatti, vuole stare tra la gente che ha sofferto come lei o che ha perso tutto in quanto scappata da Sinjar il fatidico 3 agosto 2014, così chiede di poter lavorare all’ambulatorio del campo IDP di Khanke vicino a Duhok. Non è una scelta facile: significa entrare in contatto quotidianamente con persone che ti ricordano il tuo stesso dolore, le angherie subite.
Hana rappresenta anche la nuova generazione di donne yazide: ha studiato ed è indipendente. Anche prima di perdere la sua famiglia a causa dei Daesh, vive da sola a Duhok, ha un suo appartamento. Una donna semplice, che si veste in modo moderno con jeans e maglietta, ma che è attenta alle tradizioni e che ama il suo popolo.
Quando riesce a scappare dai suoi aguzzini diventa una donna più fragile. Ha dimostrato la sua forza interiore sopportando i soprusi mentre era schiava, pianificando minuziosamente e con freddezza la sua fuga, ma poi, quando ormai è libera e al sicuro, emergono i traumi dovuti a ciò che ha subito. Il libro, infatti, ha in sé una doppia storia: quella di Hana come schiava e quella di lei nel presente che cerca di ricucire le ferite interiori, psicologiche e spirituali, di ritrovare una tranquillità.
Hana, come le sue compatriote, è una donna di grande dignità.
Da donna, ha trovato difficile concepire e raccontare una storia così forte e terribile come quella di Hana?
In un mio precedente romanzo ho già raccontato una storia difficile: quella della monaca di Monza già rinchiusa nella sua cella da 10 anni, con tutti i suoi rimorsi, i suoi drammi e crisi spirituali.
Anche in quel caso mi sono calata poco alla volta nel personaggio, mi sono immaginata le situazioni, ho provato a essere la mia protagonista. Così è accaduto per Hana.
Fondamentale per concepire e raccontare la sua vicenda sono stati due fattori. Innanzitutto i tanti racconti veri di donne che hanno realmente vissuto questa esperienza, ascoltati in Kurdistan o letti in articoli e report; sono stati i loro drammi che hanno dato vita alla storia di Hana.
L’altro fattore è stato il mio viaggio in Kurdistan, dove ho potuto vedere l’ambiente in cui si svolgeva la narrazione, sentirne i profumi, i sapori, conoscere le persone, capire meglio le tradizioni. Parlare con la gente e toccare con mano il modo in cui vivono è fondamentale.
Tutto questo è stato molto importante ma non basta. Poi, come dicevo, c’è stata la parte più creativa: l’immedesimazione psicologica. Quando scrivo ho bisogno di silenzio, devo trovare la concentrazione che mi permette di calarmi in quella circostanza, nella mia mente devo vivere quel momento, devo cercare di essere la mia protagonista. È molto bello, ma anche doloroso. Quando ho scritto il libro di Hana ero provata, c’erano momenti in cui mi rendevo conto che avevo bisogno di staccare e vivere qualcosa di gioioso che mi desse l’energia per andare avanti a scrivere. Io quelle situazioni così terribili le ho vissute solo nella mia mente, non so come facciano quelle povere ragazze che devono confrontarsi e vivere quel tipo di realtà quotidianamente, senza speranza.
Fino a poco tempo fa gli yazidi erano completamente sconosciuti alla maggior parte degli italiani, eppure lo Yazidismo è una religione molto antica. Cosa l’ha sorpresa di più di questo popolo?
Nella storia degli yazidi si ricordano 72 genocidi: un popolo che nel tempo è sempre stato massacrato. Mi ha colpito la loro forza, la loro dignità, l’orgoglio di essere curdi yazidi, la consapevolezza di credere in una religione antica, ma anche l’essere consci della loro fragilità.
Le famiglie yazide sono sorprendentemente numerose, ogni coppia ha molti figli, anche questo mi ha impressionato, considerando che qui in Italia è normale averne uno o due. D’altronde, pensandoci, si capisce che, con tutte le persecuzioni che hanno subito, se non facessero molti figli sarebbero già estinti… Comunque le donne hanno un fisico forte e malgrado i molti figli sono belle.
Mi ha sorpreso quanto poco sappiamo di questa minoranza. Per esempio sono divisi al loro interno in tre gruppi e non si possono sposare tra gruppi diversi, è la tradizione. In un mondo globalizzato a volte per i giovani è difficile, ma o accettano questa regola o devono andare all’estero.
Mi ha emozionato andare a Lalish, il fulcro sacro della loro religione. Un luogo molto antico, cavernoso, che sembra penetrare negli anfratti della Terra dove il tempo si ferma perché nulla cambia: i riti si ripetono invariati, millenari. A Lalish ho incontrato uno dei capi religiosi, Baba Chawish, abbiamo parlato ed è sembrato molto demoralizzato, perché ha chiesto aiuto a tanti governanti, associazioni, ambasciate… tutti molto comprensivi ma poi, praticamente, non hanno fatto nulla.
Purtroppo molti giovani vanno via, all’estero. I tre giovani yazidi che mi hanno supportato facendomi da guida e traducendo sono già tutti in Germania. Questo significa che le menti più brillanti emigrano e, si sa, quando si vive all’estero ci si deve integrare con nuove culture. Mi chiedo cosa ne sarà della tradizione yazida.
Quanto peso ha avuto in un romanzo come il suo, ambientato in una terra poco conosciuta, il lavoro di documentazione e ricerca?
Il lavoro di ricerca è stato importante nella fase preliminare, anche se all’inizio non era finalizzato al voler scrivere un romanzo. Mi sono “scontrata” con queste storie allucinanti, fatte di abusi, stupri, torture su donne inermi, e ho iniziato a documentarmi per capire di più. Poi, a un certo punto, un storia ha iniziato a formarsi nella mia mente e ho capito di volerla scrivere.
Allora ho iniziato a informarmi sul Kurdistan, se era troppo pericoloso intraprendere un viaggio: ho telefonato a Lorenzo Cremonesi del «Corriere della Sera», ho preso contatto con Wadi, un’associazione non governativa tedesco-irachena che opera in Kurdistan, e infine mi ha dato una mano un amico inglese manager di al-Jazeera in Qatar, che mi ha messo in contatto con un loro corrispondente. Come dicevo prima, andare là è stato fondamentale per poter scrivere la storia di Hana.
Devo comunque dire che, avendo scritto due romanzi storici di cui uno ambientato nel X secolo, il lavoro di ricerca per Hana la yazida, che racconta della nostra contemporaneità, è stato molto più facile: a volte, quando si narra di un lontano passato, per scrivere una sola frase bisogna documentarsi per ore.
Cosa le è rimasto più impresso del suo viaggio in Kurdistan?
Parecchie cose. La bellezza del paesaggio, aspro, forte, a volte sorprendente. Quando sono arrivata vicino a Duhok le montagne mi ricordavano i dipinti di Giotto! Una terra spesso quasi incontaminata, come nella valle Qsra Sadame, dove Saddam Hussein aveva un suo palazzo che ora è un rudere; qui si apre uno scenario ampio e bellissimo, dove le colline di addolciscono e il sole al tramonto si riflette in un piccolo lago.
Mi ha colpito la vitalità della città di Duhok, sede universitaria. Eravamo a 40 km dai Daesh ma se non lo sapevi non l’avresti detto, perché la vita scorre normale, nulla farebbe intendere che l’ISIS è così vicino. Te ne rendi conto quando ti sposti da una città all’altra perché ci sono parecchi posti di blocco dove ti controllano.
Mi è piaciuta l’umanità e la disponibilità delle persone curde, al di là del loro credo religioso. Qui convivono mussulmani sunniti, yazidi e cristiani. Noi ci siamo relazionati con yazidi e mussulmani, ma la religione non c’entra, la cultura dell’ospitalità è la medesima: il piacere di far capire com’è e cos’è il loro Paese, l’orgoglio per la loro terra. Abbiamo pranzato e cenato nelle loro case e ci hanno preparato pietanze squisite (introvabili nei ristoranti), ci hanno accolto facendoci sempre sentire i benvenuti.
Il Kurdistan non meriterebbe di essere dilaniato, perseguitato; il suo popolo avrebbe bisogno di un po’ di pace, di tempo per risanare i terribili recenti drammi subiti, per ridare una casa a tanta gente che non ha più nulla e vive in una tenda.
Quando torni da un viaggio in quei luoghi ti senti un po’ in colpa, perché qui noi abbiamo tutto e anche il superfluo, perché siamo una società che vive in un benessere incredibile e non ce ne rendiamo conto fino in fondo, pensando che sia la normalità. Ma qui inizieremmo un altro discorso molto lungo…